Una notte al MUFANT. Racconto di Paolo S. Cavazza

Eravamo nella biblioteca del museo, e Silvia scorreva il libro dei visitatori con evidente soddisfazione. “È quasi finito! Fra poco dovremo prenderne un altro” mi disse indicando l’esiguo spessore delle pagine ancora intonse. Cominciò a sfogliarlo all’indietro, fino ad arrivare al giorno della riapertura del museo dopo le vacanze estive, e a quel punto si fermò, perplessa. Prima dei commenti datati 5 settembre c’era una pagina vuota, tranne alcune parole in inglese, scritte a grandi caratteri in stampatello:

GREETINGS AGAIN

BEST WISHES

Al posto delle firme c’era qualcosa di assolutamente incomprensibile. Non riuscivamo a riuscire a capire di quale lingua o quale alfabeto si trattasse.

“Sembrano ideogrammi” disse Silvia. “Ma non cinesi o giapponesi, per quel che ne so.”

Io guardai a lungo, con un sensazione di leggera vertigine, mentre il ricordo di un sogno confuso si ripresentava all’improvviso nella mia mente. Mormorai “Allora sono tornati” a voce bassissima, quasi senza rendermene conto. Alzai gli occhi e vidi che Silvia mi scrutava con uno sguardo vagamente preoccupato.

“Paolo, che stai dicendo?”

Avrei voluto mordermi la lingua, ma era troppo tardi. Senza una parola presi dalle sue mani il volume di grande formato e lo sfogliai ancora più indietro, per tornare all’inizio dell’anno. Non lo avevo mai fatto, ma ora sapevo che cosa avrei trovato. Dopo i numerosi saluti dei partecipanti ai Japan Days, la festa giapponese di fine gennaio con la partecipazione di associazioni, fan club, artisti e cosplayer, c’era una pagina con due commenti scritti nella stessa grafia e con le stesse firme:

WONDERFUL MUSEUM

GREETINGS FROM A FAR AWAY PLACE  

Non era strano che fossero passati inosservati fra le battute scherzose e le vignette che avevano riempito le pagine del libro in quei giorni. Ma guardandoli bene si notavano la scrittura incerta, il tratto molto diverso da quello delle penne usate dai visitatori e il colore blu-violetto dell’inchiostro, che luccicava debolmente sotto le luci fluorescenti della biblioteca.

“Paolo, che ti succede?” domandò Silvia. “Sei impallidito di colpo…”

Io rimasi in silenzio per qualche attimo, mentre gli eventi di quella notte si riallineavano in bell’ordine nella mia memoria. Poi risposi: “Chiama Davide. Questa è una cosa che deve sentire anche lui.”

Aspettammo in silenzio che il direttore del museo ci raggiungesse. Solo in quel momento ricordai che Davide è anche, o soprattutto, uno psichiatra… Ma non mi chiesi che cosa avrebbe pensato. Sedemmo intorno a uno dei tavolini di vetro e io cominciai a raccontare una storia che, come sapevo, non poteva avere avuto altri testimoni.

Gli ultimi visitatori erano usciti da più di un’ora. Dopo la grande folla e la festosa confusione dei Japan Days, le prime giornate di febbraio erano trascorse in una calma quasi irreale, e in quel tardo pomeriggio di un grigio sabato invernale le sale del museo, immerse nella penombra, erano deserte e silenziose, popolate da presenze immote che attendevano pazienti di riprendere vita nella memoria o nella fantasia degli spettatori.

Mi ero trattenuto oltre l’orario di chiusura, a chiacchierare un po’ con Silvia e Davide, i fondatori del museo, e a curiosare fra i libri della ricca biblioteca che includeva la collezione di Riccardo Valla. Adesso però si stava facendo tardi: volevo passare a fare un po’ di spesa al supermercato Auchan che è quasi di strada per tornare a casa. Andai a prendere il giaccone, controllai la borsa della macchina fotografica, e salutai Silvia e Davide, che erano nell’angolo della biblioteca usato come ufficio, chini sui loro portatili, ancora impegnati nella difficile stesura di un documento da presentare al comune o alla circoscrizione.

Scesi le scale dell’edificio scolastico anni ‘70 che ospita il museo, ma un attimo prima di aprire la porta esterna, superata la quale sarei rimasto chiuso fuori, mi fermai di colpo davanti alla biglietteria deserta. Sentivo che stavo dimenticando qualcosa. Che cosa? Frugai nelle tasche del giaccone: chiavi di casa, chiave della macchina, patente, bancomat, fazzolettini, qualche moneta… Dov’era il telefono? Guardai anche nella borsa fotografica. Non c’era. Dove diavolo l’avevo lasciato?

La mia memoria non stava migliorando con l’età. Tornai indietro e, mentre risalivo lentamente le due rampe di scale, passando davanti al grande poster di “Invasion of the Saucer-Men”, cercai di ricordare ciò che avevo fatto nel pomeriggio. Il telefono, conclusi, doveva essere nella sala video, quella usata per le conferenze.

Rientrai silenziosamente (avevo lasciato la porta sulle scale aperta, come l’avevo trovata) e, senza passare davanti alla biblioteca, andai direttamente verso la sala video, facendomi strada nella penombra fra le teche del salone centrale, oltrepassando il Tardis, il Dalek e la riproduzione della consolle del Tardis, che appartenevano al Doctor Who Italian Fan Club.

Il telefono non c’era. Guardai sul tavolo coperto da un panno nero e su tutte le sedie. Niente. Cominciai a imprecare sottovoce. Se lo avevo lasciato da qualche parte in una delle altre sale potevo cercarlo per ore, a meno che non fosse in bella vista sulla scrivania dello Scienziato Pazzo o accanto a uno dei Borg a grandezza naturale nella sala dedicata a Star Trek, che esponeva parte delle collezioni di Stefanie Gröner.

Sarei potuto tornare da Silvia e Davide e chiedere di chiamare il mio numero… ma naturalmente il mio telefono era silenzioso e di certo non l’avrei sentito vibrare, in un ambiente così vasto.

Forse era rimasto nel magazzino, dove l’avevo usato per un paio di foto panoramiche. Aprii la porta, accesi la luce… ed eccolo là, il piccolo bastardo, su un tavolo in mezzo a utensili, barattoli di smalto, cornici smontate e altri oggetti meno identificabili.

Misi il telefono al sicuro nella tasca del giaccone e mi guardai intorno. Il magazzino del Mufant – il Museo del Fantastico e della Fantascienza di Torino – aveva perso gran parte del suo fascino caotico da quando era stato sgombrato e riordinato, con la prospettiva di servire come laboratorio e come ufficio. Ma c’erano ancora molte cose bizzarre e interessanti.

Per esempio, su un tavolino c’erano una dozzina di numeri di La Stampa e Stampa Sera del luglio 1969, i giorni dell’Apollo 11. Ricominciai a sfogliarli, leggendo i titoli e la prosa dell’epoca, provando un misto di nostalgia, di divertito stupore per la loro ingenuità, e di fascinazione per quel momento storico irripetibile. L’avevo vissuto anch’io, anche se avevo solo quattordici anni e avevo visto i primi passi di Neil Armstrong non in diretta ma in differita, alle otto del mattino del 21 luglio.

Quando mi ricordai di guardare l’orologio rimasi stupito: le 20.40. A quel punto non avrei fatto in tempo a passare da Auchan, ma sulla via di casa c’era il mio solito Carrefour aperto tutta la notte. Nessun problema.

Aprii la porta e spensi la luce del magazzino. Era molto buio, adesso. Solo un debole chiarore filtrava dai lucernari. Potevo accendere le luci nel salone, ma dopo qualche istante la mia vista si adeguò alla luce scarsa… e ormai conoscevo l’ambiente come casa mia. Mi avviai cautamente verso l’uscita, ma all’improvviso fui colto da un terribile sospetto, che divenne certezza pochi istanti dopo.

La porta a vetri sulle scale era chiusa, con i maniglioni bloccati dalla catena da bicicletta e dal grosso lucchetto che formavano un ulteriore ostacolo contro eventuali intrusioni. Durante la mezz’ora precedente Silvia e Davide, sicuri che io fossi uscito, avevano chiuso tutto e se n’erano andati a casa. Sulle scale c’era luce, ma a quell’ora sicuramente non c’era più nessuno nell’edificio, che al piano superiore ospitava un circolo di pensionati.

Presi il telefono e feci per chiamare Davide. Non accadde nulla: il display rimase buio. Lo riavviai e dopo un fuggevole ritorno in vita il messaggio “batteria completamente esaurita” pose fine al mio tentativo.

Va bene, mi dissi. Cerchiamo un alimentatore e un cavo, sicuramente ce ne saranno in ufficio. Mi girai verso l’ingresso della biblioteca e, nel buio, il rapido lampeggiare di un led rosso su un muro, più in alto della mia testa, mi fece ricordare un’altra cosa che avevo dimenticato.

L’antifurto! I sensori di movimento dovevano avere già fatto scattare l’allarme. Forse proprio in quel momento i telefoni di Silvia e Davide stavano ricevendo una chiamata automatica d’emergenza. 

Non credo di essermi mai sentito così stupido in vita mia. Non potendo fare altro, raggiunsi la biblioteca, accesi tutte le luci e sedetti a uno dei tavolini, la testa fra le mani. Potevo solo sperare che Davide arrivasse prima di polizia e carabinieri… e anche in quel caso ci sarebbero state delle spiegazioni piuttosto imbarazzanti da dare.

Però, a pensarci bene, non doveva esserci anche un allarme acustico da qualche parte? Non ero sicuro che ci fosse, ma non sentivo assolutamente nulla. Era tutto molto silenzioso, perfino troppo.

Attesi per qualche minuto di udire una sirena in rapido avvicinamento, o perlomeno il rumore di un’automobile che si fermava davanti all’ingresso, sotto le finestre della biblioteca. Poi alzai cautamente una delle tapparelle metalliche dietro l’angolo fra gli scaffali che fungeva da ufficio. Il piazzale era completamente deserto, senza nemmeno un’auto parcheggiata.

Dopo un quarto d’ora cominciai a pensare che non sarebbe successo niente. Dopo mezz’ora cominciai a esserne sicuro. Forse l’antifurto non funzionava, o non era stato inserito? Dato che l’interruttore si trovava nell’atrio vicino alla biglietteria, per me irraggiungibile, non avevo modo di saperlo.

Va bene, Paolo, adesso che si fa?

Sapevo che l’uscita di emergenza, vicino alla sala video, era ugualmente sbarrata. D’accordo, ero solo al primo piano, ma per il momento non volevo prendere in considerazione l’idea di calarmi da una finestra, con il rischio di rompermi una caviglia o di farmi arrestare o tutte e due le cose. Cercai un cavo USB, ma non ne vidi nessuno. Silvia e Davide avevano portato via anche i loro portatili. Ce n’era uno nella sala video, collegato al proiettore, ma sapevo già che non andava in rete. In estrema sintesi, avevo un router wi-fi che copriva tutta l’area del museo e nessun dispositivo da connettere per comunicare con il mondo esterno.

Non si può essere così stupidi, mi dissi con determinazione. Però c’ero riuscito. Ero bloccato dentro il Mufant fino al primo pomeriggio del giorno dopo.

Un museo è un posto strano” diceva un personaggio in una vecchia storia di Jeff Hawke. E il Mufant è uno dei più strani di tutti. Ormai dovevo accettare l’idea di trascorrere una notte più o meno insonne fra alieni, mostri, maghi, draghi, dinosauri, robot e scienziati pazzi riprodotti in tutte le forme e dimensioni. Potevo accendere le luci, o rifugiarmi in una protettiva penombra, però sapevo che prima o poi avrei dovuto stendermi in qualche modo e chiudere gli occhi. Ma come, e dove? La sala video era l’unica in cui potevo spostare liberamente le sedie e il tavolo. C’era anche una poltroncina imbottita, ma con lo schienale basso e senza poggiatesta.

Non mi preoccupava la prospettiva di digiunare fino al pomeriggio successivo. Avevo riserve abbondanti… Comunque cercai nel magazzino, trovando solo una decina di bicchieri di plastica e nemmeno una bottiglietta d’acqua o un sacchetto di patatine. Il progetto di realizzare un piccolo bar interno era ancora sulla carta. Poco male, avrei bevuto acqua del rubinetto, e in quella situazione dubitavo che avrei sentito la fame. Finché riuscivo a stare sveglio non c’erano problemi a passare il tempo. Non con una biblioteca di diecimila volumi, senza contare riviste e fumetti. Ma temevo di cadere addormentato di colpo su uno dei tavolini di vetro.

Dopo aver girato un po’ a vuoto per le sale, accendendo e spegnendo le luci intorno a me, mi venne l’idea di fare qualcosa di utile, qualcosa per distrarmi e per non far sembrare completamente sprecato il tempo che ero costretto a passare nel museo. Recuperai il cavalletto dal magazzino, montai la fotocamera e cominciai a fare delle riprese che non potevo fare di giorno per non intralciare i visitatori: con tempi lunghi, bassa sensibilità, diaframmi chiusi e inquadrature minuziosamente corrette. Potevo mettere il cavalletto dove volevo, accendere e spegnere gruppi di luci a soffitto e spostare come volevo le lampade a stelo che erano sparse nei vari ambienti. Ebbi la tentazione di rimuovere il plexiglas di alcune teche che non ero mai riuscito a fotografare senza riflessi fastidiosi, ma la paura di danneggiarle fu più forte, per cui mi limitai a illuminarle in maniera inconsueta. Peccato non avere l’attrezzatura da studio, pensai: dopo i Japan Days avevo riportato a casa lampade e ombrelli riflettori.

Lavorai con un certo entusiasmo forzato per quasi due ore, ma verso le undici la stanchezza cominciò a farsi sentire. E non potevo negare che il profondo silenzio intorno a me cominciava a darmi una sottile inquietudine. Smanettando un poco avrei potuto accendere il video che, accanto alla figura dello Scienziato Pazzo, durante il giorno proiettava “Frankenstein Junior”: ma conoscevo il film a memoria, e non ero sicuro che le celebri battute del doppiaggio italiano (“Lupo ululì, castello ululà”, “Si… può… fare!”, “Potrebbe piovere”) avrebbero avuto un effetto salutare sui miei nervi ormai piuttosto logori.

Se mi fermavo non sentivo assolutamente nulla, nemmeno i tipici rumoretti di un edificio con una certa età e i termosifoni ormai freddi. Sapevo che il Mufant, dopo l’orario di chiusura, era molto silenzioso. Ma cominciava a sembrarmi strano che non si sentisse alcun rumore, né all’interno né dall’esterno.

Tornai nella sala video e sollevai una tapparella per guardare fuori, su via Reiss Romoli. La strada era deserta, nessun passante, nessuna automobile ferma al semaforo rosso… Mi allontanai dalla finestra con una sensazione di disagio che non riuscivo a mettere a fuoco. D’accordo, mi dissi, sono le undici e siamo ai confini della città… La zona è quella che è… Ma il sabato sera non dovrebbe esserci un po’ di movimento anche qui?

. . .

Mi rendevo conto di essere arrivato a quel punto della notte in cui quasi non mi reggevo in piedi e gli occhi volevano chiudersi. Sbandando un poco, andai in bagno, anche per bere un bicchier d’acqua, poi tornai verso la sala video, facendo una tappa nel magazzino per prelevare tutti i drappi di velluto nero usati per coprire i tavoli o come fondali. Spostai la poltroncina, girando lo schienale contro il tavolo e, alla luce di una lampada a stelo, improvvisai un cuscino per appoggiare la testa. La temperatura cominciava un po’ a calare. Mi rimisi il giaccone, dopo avere svuotato le tasche di quello che poteva darmi fastidio, e mi allungai sulla poltrona per quanto possibile, con i piedi appoggiati su una sedia e le gambe avvolte in un altro pezzo di stoffa. Con la testa nel cappuccio mi sembrava quasi di essere in un sacco a pelo. In realtà non ero mai riuscito a dormire bene in un sacco a pelo, ma adesso avevo solo bisogno di restare immobile e chiudere gli occhi…

Prima di spegnere la luce guardai l’orologio: era già domenica, da quasi dieci minuti.

. . .

Mi risvegliai di soprassalto, con la sensazione di cadere. Ma in realtà non mi ero quasi mosso e la mia posizione sembrava ancora abbastanza stabile. Lasciai calmare l’accenno di tachicardia che mi aveva colto, mentre scrutavo la penombra della sala; una luce fioca entrava dallo spiraglio della tapparella che non avevo abbassato completamente. Ero convinto di avere dormito pochi minuti. Guardai le lancette debolmente luminose dell’orologio e, con enorme stupore, vidi che erano le 3.55. Incredibile! Avevo dormito come un masso per quasi quattro ore in una posizione così scomoda?

Allungai la mano fino alla lampada, toccai l’interruttore e… non accadde nulla. Mancava la corrente? Da quanto? Ricordai che una volta, durante una conferenza, c’era stata un’interruzione e intorno al Mufant si era scatenato un autentico concerto di allarmi antifurto. Adesso, però, tutto era silenzioso come prima.

Mi districai a fatica dal sacco a pelo improvvisato e mi rimisi in piedi con cautela. Ero ancora un po’ stordito, ma un ampio assortimento di dolori articolari mi aiutò a svegliarmi. Feci qualche passo verso la finestra e guardai all’esterno.

Un saggio ha detto, giustamente, che è difficile vedere le cose ovvie. Io ci misi un bel po’ di tempo per accorgermi di qualcosa che, a ripensarci, non era affatto ovvio.

Via Reiss Romoli era deserta, come l’ultima volta che l’avevo vista. Ma il semaforo era rosso sul passaggio pedonale e giallo sulla strada. Giallo fisso.

Da vecchio fotografo dell’era analogica cominciai a contare i secondi come si faceva prima dei timer elettronici: “milleuno, milledue, milletre…”. A milledieci mi fermai. Il semaforo era bloccato sul giallo. Che cos’era successo? C’era stata davvero un’interruzione di corrente che aveva impallato la centralina? Non sapevo che cosa pensare.

Mi sentivo ormai abbastanza sveglio da non credere che sarei riuscito ad addormentarmi di nuovo. Mancavano solo tre ore all’alba, anche se il cielo plumbeo si sarebbe schiarito molto lentamente. Mi tolsi il giaccone, lasciandolo sulle sedie, e mi avviai cautamente verso la porta, con l’intenzione di arrivare fino al bagno e sciacquarmi con l’acqua fredda.

Quando mi affacciai sul corridoio dovetti fermarmi: lì il buio era molto più profondo. Rimasi a scrutare l’oscurità, aspettando che la mia vista si adeguasse al tenue chiarore che filtrava dai lucernari.

E in quel preciso momento mi giunse all’orecchio un suono caratteristico, inconfondibile anche a distanza in quel silenzio irreale: il cigolio della porta d’ingresso che si apriva sulle scale.

Il mio primo pensiero fu: “Alla buon’ora! Finalmente è arrivata la polizia.”

Ma mi accorsi subito che c’era qualcosa di strano. Al cigolio dei cardini della vecchia porta a vetri non aveva fatto seguito alcun rumore. Forse non ero completamente sveglio, ma mi era difficile immaginare i poliziotti che avanzavano silenziosamente nell’oscurità, per sorprendere una improbabile banda di scassinatori assoldata da qualche collezionista pazzo allo scopo di saccheggiare i tesori del Mufant.

Alla mia destra, la lontana estremità del corridoio che andava verso la biblioteca non era più completamente buia. Ma c’era qualcosa che non mi convinceva nel chiarore bianco-azzurro che filtrava dal corridoio d’ingresso. Non sembrava affatto la luce di una o due torce elettriche, ma un bagliore diffuso da una fonte ancora nascosta, che sembrava avvicinarsi all’angolo del corridoio, a quasi trenta metri di distanza.

Se fossi rimasto dov’ero, sulla soglia della sala video, sarei stato visibile appena gli intrusi, chiunque fossero, avessero svoltato l’angolo. Ormai ero sicuro che non fossero poliziotti, e quella luce mi sembrava sempre più strana.

Mi diressi nella direzione opposta, verso l’angolo del corridoio alla mia sinistra, per poi svoltare a destra, verso il salone centrale. Da lì potevo vedere un tratto del corridoio d’ingresso, solo debolmente illuminato dal chiarore che stava diminuendo. Gli intrusi dovevano essere arrivati all’altro corridoio, quello da cui ero appena venuto.

Per qualche attimo pensai di camuffarmi tra la sfilata di costumi di Star Wars, ma poi decisi di nascondermi dentro il Tardis: la porta era aperta. Peccato che non fosse “più grande dentro che fuori” come l’originale in Doctor Who, ma era sufficiente per fornirmi un buon punto d’osservazione. Entrai, chiusi la porta e lasciai parzialmente aperto il portello con il simulacro del telefono, all’altezza dei miei occhi.

Nel corridoio, oltre la soglia del salone, il chiarore continuava a farsi più vivido, fino a diventare una luce intensa, dalla tonalità fredda, che sembrava venire dall’alto, vicino al soffitto. Ora sentivo chiaramente dei passi che si avvicinavano.

Ci fu un attimo di silenzio. In quella luce spettrale tutto era immobile. Io trattenevo il respiro. Poi sul pavimento si disegnarono due ombre allungate, e due figure in controluce apparvero sulla soglia, accanto alla consolle del Tardis.

Erano un uomo e una donna. Sembravano molto giovani. Di corporatura sottile, indossavano delle semplici tute aderenti di colore grigio-argento. Fermi sulla soglia, si guardarono intorno, nella luce che delineava le loro sagome, e io notai che non sembravano molto diversi l’uno dall’altra. La donna, che sembrava quasi un’adolescente, si distingueva dal suo compagno solo per un accenno di seno e fianchi appena più pronunciati. Avevano circa la stessa statura, e mi parvero leggermente più piccoli di me.

Continuavano a guardarsi intorno con aria perplessa, scambiandosi qualche parola in una lingua irriconoscibile. Io continuavo a notare i dettagli del loro aspetto. Avevano entrambi capelli corti, tagliati allo stesso modo; quelli del ragazzo erano di un biondo chiarissimo, quasi argenteo; la ragazza aveva una capigliatura di un rosso vivo. La pelle bianca e compatta mi fece pensare a un trucco teatrale; i tratti erano indefinibili, con qualcosa di europeo, qualcosa di orientale e qualcosa che non riconoscevo. Sembravano due cosplayer… Ma che personaggi stavano interpretando? E che ci facevano due cosplayer dentro il Mufant alle quattro del mattino? Sapevo che c’erano dei personaggi davvero eccentrici in quell’ambiente, ma sarebbe stata una burla troppo elaborata e rischiosa, se lo scopo era quello di girare un video da mettere su YouTube.

I due mossero qualche passo nel salone, e la fonte di luce li seguì. Quando apparve oltre la soglia rimasi allibito. Era una sfera di luce del diametro di forse mezzo metro, sospesa nell’aria a pochi centimetri dal soffitto. Si abbassò per oltrepassare la soglia, poi tornò a librarsi alla stessa altezza. Il tutto nel silenzio più assoluto. Non poteva essere un drone.

Il ragazzo guardò verso il Tardis, ora illuminato direttamente, mi vide, e restò immobile a fissarmi. Il mio volto pallido doveva spiccare nella cornice della cabina telefonica. Decisi che era il momento di uscire.

Ero stupito e turbato dalla stranezza della situazione, e mi rendevo conto che stavo vedendo qualcosa di straordinario; ma non ero davvero spaventato. I due ragazzi non portavano alcuno strumento; non riuscivo a immaginare che fossero pericolosi.  Mentre facevo qualche passo verso di loro vidi che erano davvero molto magri, con lunghe dita affusolate. Gli occhi avevano un taglio orientale: quelli del ragazzo erano grigi, quelli della ragazza di un verde brillante. La pelle così chiara sembrava naturale, vista da vicino. C’era una discreta somiglianza fra i loro volti.

“Chi siete?” domandai con la voce più ferma che mi fosse possibile in quel momento. Il ragazzo mi guardò immobile, la ragazza scosse la testa in maniera quasi impercettibile. Provai con l’inglese, parlando lentamente e staccando le parole.

“Who are you?”

I due si scambiarono un’occhiata, poi la ragazza fece eco alla mia domanda.

“Who are you?”

La frase era troppo breve per individuare un accento. Ci pensai un attimo, poi risposi “My name is Paolo”, e dopo averci pensato un altro po’, per trovare le parole, aggiunsi:

“Sono un collaboratore di questo museo.”

Questa volta fu il ragazzo a parlare, con una cautela simile alla mia.

“Non pensavamo di trovare qualcuno qui durante di notte.”

“È stato uno sbaglio” cercai di spiegare. “I… proprietari… del museo sono andati via pensando che io fossi già uscito.”

I due ragazzi si guardarono di nuovo, senza parlare.

“Ma voi chi siete?” provai a insistere.

Sembrarono pensarci a lungo, poi la ragazza rispose: “Io mi chiamo Kleendar”.

Il ragazzo la imitò: “Io mi chiamo Jeran”.

(Ho trascritto i nomi foneticamente: Kleendar, pronunciato con una “i” molto lunga, sembrava inglese, mentre Jeran sembrava francese, sia nel suono che nell’accento sulla seconda sillaba.)

A questo punto ci fu un’altra pausa di silenzio imbarazzato. La domanda successiva toccava a me.

“Da dove venite?”

Questa volta non risposero, ma parlarono a bassa voce fra di loro. La lingua aveva un suono veramente strano, almeno alle mie orecchie. Somigliava al giapponese nel tono e nella cadenza, ma alcuni suoni mi ricordavano le lingue slave.  Altri non mi ricordavano nulla che avessi mai sentito.

Dopo almeno mezzo minuto, parte del quale trascorso in silenzio con un’aria attenta, come se stessero ascoltando qualcosa che io non potevo udire, la ragazza rispose:

“Veniamo da un luogo molto lontano da qui.”

“Questo lo avevo capito” risposi immediatamente, e la conversazione si arenò di nuovo. Il loro inglese era corretto, pronunciato con cura, ma con un accento indefinibile. Probabilmente il mio non era molto meglio, dato che erano anni che non avevo occasione di parlarlo.

Nel frattempo continuavo a guardarli. Il loro aspetto era chiaramente umano, anche se piuttosto androgino. Passai in rassegna le varie alternative classiche per un appassionato di fantascienza, e provai a sondarli.

“Venite dal futuro?”

“Dal futuro?” replicò la ragazza con espressione stupita. “Oh, no. Non esattamente.”

Avrei sentito quella risposta, “not exactly”, numerose altre volte, quella notte.

“Venite da un altro pianeta?”

Non risposero subito, ma non parlarono nemmeno fra loro. Ascoltarono una voce silenziosa, forse nelle loro menti, poi il ragazzo disse: “Non possiamo parlarne.”

In italiano la frase sarebbe parsa ambigua, ma in inglese era inequivocabile:

“We may not tell about that.”

Dunque, venivano da un altro pianeta. Un pianeta con una comunità umana extraterrestre?

O erano degli androidi creati per l’occasione da alieni non umani?

Ma se fossero stati solo dei replicanti, dei simulacri temporanei, perché creare un androide e una ginoide? Ora che li guardavo da vicino in piena luce, potevo notare che le tute attillate non nascondevano più di tanto dei dettagli perfettamente naturali. Certo, avevano qualcosa di insolito, che poteva far pensare a modifiche genetiche e a una progressiva deviazione dalla linea ereditaria comune fra noi e loro. Mi colpiva in particolare il loro aspetto slavato. Non erano albini, ma l’estremo pallore e i capelli quasi bianchi del ragazzo sembravano indicare una vita trascorsa in un ambiente artificiale. Anche la ragazza aveva solo due note di colore – gli occhi e i capelli – ma per il resto appariva sbiadita come il suo compagno. Le sopracciglia di entrambi erano appena accennate. Le labbra erano sottili ed esangui. Tuttavia non avevano nulla di realmente alieno. La domanda mi venne del tutto spontanea.

“Ma voi due… siete realmente… umani?”

Questa volta fu il ragazzo a mostrarsi stupito. Mi guardò con aria incredula, poi rispose:

“Che cosa dovremmo essere?”

Il modo in cui lui e la sua compagna rispondevano, alternandosi senza mai sovrapporsi, mi ricordava alcune coppie di gemelli che avevo conosciuto in passato. Così provai con un’altra domanda.

“C’è una somiglianza fra di voi. Siete imparentati?”

“Cosa?”

“Siete… fratello e sorella, per esempio?”

I due si guardarono, poi fu la ragazza a rispondere.

“No… Non esattamente.”

. . .

Eravamo ancora là, a guardarci in silenzio, dentro quella bolla di luce circondata dall’oscurità del museo. Ormai ero convinto di avere di fronte a me dei lontani discendenti della Terra, con i quali potevo comunicare, a fatica, usando una lingua che non apparteneva a nessuno di noi.

I visitatori non sembravano avere alcuna fretta. Mi chiedevo quali pensieri attraversassero le loro menti, dietro quegli occhi che mi scrutavano con tranquilla sicurezza. E mi chiedevo se fossero soltanto loro a scrutarmi.

“Perché siete qui?”

Ancora quella strana esitazione prima di rispondere.

“Siamo interessati a questo luogo” disse Kleendar.

“Perché? Per quale ragione?”

“Perché contiene una collezione di libri e oggetti che non potremmo… esaminare in un altro modo” rispose Jeran.

“Che significa?” domandai impulsivamente, un attimo prima di capire ciò che era sottinteso in quella risposta. La domanda seguente fu altrettanto impulsiva.

“Voi avete accesso a Internet?”

“Sì, certo.”

Credo di essere sbiancato di colpo. Il pensiero che questi e forse altri osservatori alieni usassero account fittizi su Facebook, Instagram e Twitter era a dir poco raggelante. Pensai alle pagine della NASA, invase dai deliri dei terrapiattisti e dei fanatici che negavano le missioni lunari. E quello era solo il primo caso che mi veniva in mente. Per un attimo mi sentii sprofondare. Mi venne perfino la tentazione di scusarmi per l’immagine che la nostra civiltà stava dando di sé stessa; poi il senso del ridicolo mi trattenne dal farlo. Rimasi in silenzio, ma la mia espressione doveva essere significativa anche ai loro occhi.

Per reagire in qualche modo all’imbarazzo che provavo mi spostai di qualche passo, tornando verso il corridoio. Kleendar e Jeran mi seguirono, seguiti a loro volta dalla luce sospesa sopra le loro teste. Mi era venuta una vaga idea di fare da guida, anche se forse non ne avevano bisogno.

Proseguii fino alla sala video, ma a quel punto i due ragazzi si fermarono. Me ne accorsi e mi fermai anch’io. In quel momento ebbi l’impressione di udire dei rumori lontani, in direzione della biblioteca.

Allarmato, mi voltai verso di loro e chiesi: “Siete venuti qui… da soli?”

“No, non esattamente” rispose Kleendar guardando verso l’oscurità, alle mie spalle.

Seguii il suo sguardo. Alla fine del lungo corridoio il buio sembrò condensarsi in qualcosa che non aveva ancora una forma. Era solo una vaga sensazione di movimento, al limite della mia visione.

Poi l’oscurità aprì due occhi gialli che mi fissarono. Io rimasi come paralizzato, mentre il cuore sembrava fermarsi.

“Non avere paura” disse la ragazza. “Lei è la nostra pilota.”

“L-lei?” riuscii a chiedere, non so con quale voce.

“Sì” rispose il ragazzo. “Non ricordo la parola esatta, ma in questo momento è in una fase femminile.”

Mentre la guardavo, come in un sogno assurdamente nitido, riconobbi con assoluta certezza l’entità che emergeva lentamente dal buio. Non potevo sbagliarmi: nel museo ce n’erano almeno due raffigurazioni approssimative. Ma quei disegni, frutto dei ricordi di un testimone confuso e spaventato, non mi avevano preparato alle impressioni che provavo in quel momento. Ciò che prendeva forma di fronte a me era una creatura enorme, ma che si muoveva con singolare leggerezza, come se non fosse completamente solida. E c’era una bizzarra eleganza nelle sue proporzioni, solo in parte umanoidi.

Camminava lentamente, un po’ curva in avanti, e questo le dava un aspetto ancora più minaccioso. Ma quando si fermò, a qualche metro da me, e si alzò in tutta la sua statura, mi resi conto di qual era la ragione di quell’andatura: era talmente alta che le creste ossee sulla sua testa sfioravano il soffitto del corridoio. Non indossava una tuta come i suoi compagni umani; sembrava anzi non indossare quasi nulla, tranne la sua luccicante livrea naturale color verde smeraldo. Portava stivali grigio-argento dalla pianta molto larga, una specie di cintura e due bracciali dorati, vicino alle articolazioni intermedie degli arti superiori. Le mani avevano sette… no, otto dita, due delle quali sembravano opponibili alle altre. Non erano palmate, ma forse i piedi lo erano, a giudicare dalla forma delle calzature.

La creatura aliena mi scrutò dall’alto in basso con i suoi grandi occhi dorati, poi volse lo sguardo verso i due compagni. Mi parve di udire un sibilo modulato; la bocca era socchiusa, immobile. Kleendar e Jeran risposero nella loro lingua. Dopo qualche istante si girò e tornò sui suoi passi, verso l’estremità del corridoio, lasciandomi solo una vaga sensazione di calore sul volto, come se fosse avvolta da un bozzolo di aria calda. La guardai svanire nell’oscurità, muovendosi con una sinuosa eleganza, e mi chiesi come fosse riuscita a evitare, nel buio, le teche allineate nel corridoio d’ingresso del Mufant.

. . .

Dopo quell’incontro la notte assunse le cadenze del sogno a occhi aperti. Mi sentivo sospeso, senza ansia o paura, ma solo in parte consapevole di ciò che mi circondava. Delle due ore successive non ricordo molto, tranne immagini staccate e confuse. So che a un certo punto chiesi ai due visitatori se non si poteva riavere l’illuminazione. Kleendar rimase un attimo assorta, poi mi disse: “Prova”. Andai a premere gli interruttori del salone centrale, e di colpo la luce familiare illuminò una scena improbabile: i due extraterrestri che esaminavano la sfilata dei costumi di Star Wars – e sembravano farne parte a pieno titolo. La loro fonte di luce impallidì, ma rimase accesa. La sfera continuava a mostrare un contorno nebuloso, sfumato. Quando si spostò sopra il manichino dello Scienziato Pazzo sembrò un elemento della messa in scena. Solo allora notai la mia macchina fotografica: era ancora sul cavalletto in mezzo al salone, dove l’avevo lasciata. Senza farmi notare provai ad accenderla, ma la fedele Pentax non diede segni di vita. Me lo aspettavo, purtroppo. Non avrei avuto immagini da mostrare al mondo – ammesso che potessi riprenderli e che mi lasciassero le schede di memoria, naturalmente.

Kleendar e Jeran esaminarono con grande attenzione le varie sale, talvolta rivolgendomi qualche domanda. Mi sembrarono particolarmente interessati ai Borg della sala Star Trek e alle copertine delle storiche riviste pulp degli anni ’30 e ‘40. Poi si installarono nella biblioteca e cominciarono a prendere libri, a sfogliarli rapidamente e a rimetterli al loro posto, in maniera apparentemente casuale, anche se attingevano soprattutto alla collezione di libri inglesi e americani appartenuta a Riccardo Valla. Di nuovo ebbi l’impressione che ciò che vedevano fosse condiviso con dei controllori o supervisori a distanza. Li lasciai alle loro ricerche e vagai come un sonnambulo negli altri ambienti del museo, fermandomi di tanto in tanto per qualche minuto nella penombra della sala video.

Durante uno dei miei giri senza meta vidi la creatura aliena china a osservare le teche del Centro Italiano Studi Ufologici. Sembrava guardare con aperta disapprovazione la caricatura di un individuo della sua specie che illustrava un celebre caso degli anni ‘70. Avrei dato qualsiasi cosa per riprendere quella scena!

Vista in piena luce, l’aliena era strana, gigantesca, ma non mostruosa. Aveva anzi una sua bizzarra armonia di forme e di movenze. Si volse verso di me con aria pensosa, e il suo sguardo mi ricordò, inevitabilmente, quello di un grosso gatto. Ebbi la tentazione di rivolgerle la parola, ma era ovvio che non potevo capire, e nemmeno udire, il suo linguaggio, e che con tutta probabilità lei non era in grado di capire il mio. Si allontanò verso il corridoio d’ingresso, chinandosi per oltrepassare la soglia, e da qual momento non la vidi più.

Un po’ di tempo dopo (sul mio orologio erano quasi le sette) chiesi di lei ai due umani, che continuavano a sfogliare un libro dopo l’altro a velocità impressionante. Jeran mi rispose che era tornata a bordo del suo veicolo, perché era stanca di grattare il soffitto con le creste. Kleendar aggiunse, senza distogliere lo sguardo da un’antologia di Murray Leinster: “Ha anche detto che i disegni nella sala grande e all’ingresso le sembrano di pessimo gusto”.

E su questo, dopo avere visto dal vivo un’aliena rettiloide, potevo essere tranquillamente d’accordo.

Già: il loro veicolo. Dov’era? Forse era atterrato accanto al museo, magari protetto da un campo di forza che lo rendeva invisibile?

Nella biblioteca c’era una finestra con la tapparella sollevata di mezzo metro. Ma non volevo farmi vedere dai due visitatori. Entrai invece nella Sala Horror, che quella notte avevo preferito evitare; ma era improbabile che adesso l’effigie di Freddy Kruger e la parete di teste mozzate potessero farmi impressione. Mi avvicinai a una delle finestre e scostai la carta blu notte che la schermava, in modo da guardare fuori, verso il piazzale.

Eccolo lì. Il più classico dei dischi volanti, a forma di piatto rovesciato, con una graziosa cupola emisferica, placidamente parcheggiato davanti all’ingresso del museo. Occupava tutto lo spazio fra la cancellata a sinistra e gli alberi a destra. Era atterrato con estrema precisione accanto ai lampioni che ora lo illuminavano in pieno, perfettamente visibile dalla strada. Ma dov’erano le volanti di polizia e carabinieri che a quell’ora avrebbero dovuto circondare il piazzale con le loro luci lampeggianti? Dov’era la piccola folla di spettatori con i telefonini spianati a riprendere la scena?

E perché era ancora così buio?

Mentre contemplavo quello scenario improbabile c’era qualcos’altro nella mia mente, qualcosa che non riuscivo a mettere a fuoco… Un dettaglio che avevo visto in precedenza, quando mi ero svegliato.

Il semaforo. Ecco che cos’era. Il semaforo.

Silenziosamente mi avviai verso la sala video, passando attraverso il salone centrale. Kleendar e Jeran erano sempre nella biblioteca, intenti a scorrere un libro dietro l’altro.

Mi affacciai alla finestra sulla strada. Il semaforo era rosso, ora. A quanto pareva, aveva ripreso a funzionare. C’erano due auto ferme sull’altra corsia, e una ferma davanti a me… a venti metri dalla linea di arresto. Perché non era arrivata al semaforo? Non c’era motivo per fermarsi prima.

Rimasi a guardare, in attesa che il semaforo diventasse verde. Rimasi a guardare a lungo, molto a lungo, prima di arrendermi all’evidenza.

Non era solo il fatto che il semaforo restasse rosso. C’era un’altra cosa, e ci vollero alcuni minuti prima di esserne sicuro. Era una cosa tanto sconvolgente quanto impercettibile a prima vista.

L’automobile non era ferma. Stava avanzando verso l’incrocio… alla velocità di alcuni millimetri al secondo. In cinque o sei minuti non aveva percorso più di due metri. Ma si era mossa da quando avevo cominciato a tenerla d’occhio: ne ero sicuro grazie a una macchia scura sull’asfalto che la sua ruota anteriore destra aveva raggiunto e superato.

Nonostante la vertigine che mi stava cogliendo, ero ancora capace di fare dei calcoli approssimativi. Quella macchina stava frenando per fermarsi al semaforo rosso: probabilmente si muoveva ancora a una decina di chilometri orari – tre metri al secondo, più o meno. Ma, dal mio punto di vista, in un secondo percorreva meno di un centimetro. C’era un’unica spiegazione, incredibile ma coerente con tutto ciò che era accaduto quella notte.

Il mondo esterno, fuori dal Mufant, mi appariva rallentato di almeno tre o quattrocento volte. Da quando avevo guardato fuori dalla finestra, al mio risveglio, forse il semaforo non aveva ancora completato un ciclo: dal giallo era passato al rosso, ed era ancora rosso.

Ecco perché nessuno aveva ancora segnalato il disco volante! Nel mondo esterno era apparso da mezzo minuto, forse meno. Sempre ammesso che fosse visibile fuori dalla bolla di tempo alterato in cui erano racchiusi il museo e il piazzale antistante.

. . .

Quanto sarebbe durata quella notte?

Il significato di quei calcoli mi colpì all’improvviso e mi lasciò stordito, seduto sulla poltroncina ancora accostata al tavolo coperto di velluto nero.

Che ora era nel mondo esterno?

Non avevo modo di saperlo. Potevano essere le quattro, ma più probabilmente era un’ora compresa fra le undici della sera prima e le tre e mezza del mattino. Ripensai all’allarme che non suonava, al silenzio assoluto, alla completa perdita dei contatti che aveva preceduto l’interruzione della corrente. Forse il Mufant era stato isolato dal mondo esterno poco dopo che Silvia e Davide erano usciti.

Quanto sarebbe durata quella notte?

La mia mente sembrava paralizzata dallo stupore. Stentavo a fare le operazioni più semplici. Con enorme fatica calcolai che, nella migliore delle ipotesi, la notte sarebbe durata ancora… 3 per 300… 900 ore, cioè… 24 per 30 fa 720, ne restano 180… quindi… 37 giorni e mezzo!

No, era impossibile. Il disco volante non sarebbe rimasto visibile (ma era visibile?) per più di pochi minuti. Ma anche in quel caso, quella notte che ormai mi sembrava infinita per me sarebbe durata più di ventiquattro ore. I due umani avevano bisogno di mangiare e dormire? Non ne ero affatto sicuro.

Mi pareva di essermi ridestato dal sogno, ma il prezzo era l’ansia improvvisa che mi faceva tremare le mani. Avevo i brividi. Scattai in piedi, camminai in cerchio per un po’, quindi mi avviai verso la biblioteca, con la speranza di trovarla vuota. La speranza, e il timore, che fosse tutto uno strano sogno.

. . .

Non era un sogno. I due visitatori erano sempre là, tranquillamente intenti al loro compito. Jeran scorreva i titoli dei libri, Kleendar sfogliava accigliata un romanzo di Larry Niven.

“Quanto tempo vi serve?”

Nessuno dei due parve udire la mia domanda.

“Per quanto tempo rimarrete qui?” chiesi a voce più alta, in tono lievemente isterico.

Kleendar sollevò la testa e mi guardò stupita.

“Quanto tempo vi serve per la vostra missione?”

Lei rimase assorta per qualche istante, poi sorrise e rispose in tono divertito.

“Oh, il tempo non è un problema,” disse, e fece una brevissima pausa prima di continuare con una battuta che nella mia mente ebbe un suono molto familiare, e al tempo stesso raggelante. Non poteva essere una citazione casuale: doveva averla letta poco prima in uno di quei libri.

“Abbiamo molto, molto tempo. Tutto il tempo del mondo.”

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